L'angolo dello scrittore

Morte ad Abu Salim

di Marco Benedettelli_tratto da Nazione Indiana

_Sul cortile  del carcere di Abu Salim c’è un gruppo di uomini e di ragazzini. Sono sporchi di fuliggine nera, sulle guancie, sulla fronte e anche intorno agli occhi. Nelle pupille hanno qualcosa di feroce, una luminescenza rancorosa che mi fa sentire assediato. Siedono sotto una  gigantografia del rais dipinta su un grande pannello di ferro, issato nel mezzo del cortile. Nel penitenziario di Abu Salim venivano rinchiusi i criminali comuni e gli oppositori politici del regime. Oggi è tutto abbandonato e deserto, non si spara più da qualche giorno, ma la guerra qui vibra ancora dentro la luce che avvolge le cose. I colori del ritratto di Gheddafi sono accesi, fosfori: il giallo e il verde dei vestiti, il rosa salmone della pelle. I suoi occhi sono schermati dalle lenti policrome degli occhiali azzurri. Il profilo del raiss è schiacciato, spigoloso. Il ritratto è acido e primitivo e sembra quasi un’opera pop. Qualcuno ci ha passato sopra una sventagliata di mitra, e la fronte di Gheddafi è tutta bucherellata. La sua bocca è stretta in una smorfia fiera e irata che continua ad annunciare l’ingresso nell’inferno di Abu Salim.

Ad Abu Salim sono stati commessi crimini mostruosi. Torture, omicidi, esecuzioni sommarie. Un giorno, nel giugno del 1996, duemila detenuti durante l’ora d’aria si ribellarono contro le loro disperate condizioni di reclusione. In risposta  furono tutti massacrati. Vennero presi e chiusi in uno dei cortili del carcere, e lì abbattuti a colpi di mitra. I soldati – raccontano i testimoni sopravvissuti – sparavano dai tetti e dalle feritoie delle porte, i prigionieri cercavano di scappare ma sbattevano tra le mura di cemento tutt’intorno. Urlavano,  e cadevano bucati dai proiettili. Secondo alcune stime quel giorno sono morte 1796 persone. Da un giorno all’altro, le famiglie hanno smesso di ricevere da loro notizie o messaggi.  Padri, mariti, figli e fratelli erano come caduti in un grande buco nero, risucchiati nel nulla. Quindici anni dopo, il 17 febbraio 2011, la rivoluzione in Libia è iniziata con la grande manifestazione e quel giorno a Bengasi i familiari delle vittime sono stati i primi a scendere in strada per protestare e per chiedere la verità su quelle morti del ‘96. Poi, la mattina del 25 settembre,  dopo mesi di guerra e di bombardamenti, la loro domanda ha trovato risposta. Degli ex funzionari del regime gheddafista  hanno detto di andare a cercare in uno spiazzo di terreno a fianco delle mura del carcere di Abu Salim. Lì c’era una fossa comune, scavando la terra sono venuti fuori migliaia di teschi, femori, costole, ossa di piedi e di mani.

Quando varco la soglia incustodita della prigione e entro nel cortile spopolato, sono i primi giorni di settembre. Gheddafi è stato deposto da poco e i morti del 1996 sono ancora tutti seppelliti lì sotto, da qualche parte a ridosso delle mura di cinta.  Due uomini sulla quarantina si staccano dal gruppetto di gente sporca di polvere e con gli occhi bianchi di odio che siede sotto la gigantografia di Gheddafi. Si avvicinano e parlano in arabo con Saladin, il ragazzo tripolino che mi sta accompagnando. I due salgono nella nostra macchina e partiamo. Sfiliamo davanti a un edificio bombardato dalla Nato nella morsa finale della battaglia di Tripoli. La struttura è implosa, i pilastri e le architravi di cemento sono frantumati e spezzati, le pareti sono tutte schiantate.  Il fuoco ha inghiottito ogni colore, è rimasto solo il nero delle lingue di fuliggine impresse sulle rovine, e il bianco spettrale del cemento ustionato dalle deflagrazioni dei missili.  Nel quartiere di Abu Salim, intorno al penitenziario, si era asserragliata l’ultima resistenza gheddafista e si è continuato a sparare e a bombardare fino all’ultima ora di guerra.  Attraversiamo la strada polverosa che circonda il carcere. Non c’è nessuno, solo un magma di oggetti sventrati e bruciati che la guerra ha disseminato nello spazio. Poi Tarek, uno dei due uomini saliti con noi in macchina, corpulento, calmo, mi dice: «Vuoi vedere un morto?».«Sì», rispondo.

Entriamo nel carcere abbandonato. La luce filtra dalle feritoie in altro e si espande rarefatta nel silenzio. Le  celle sono vuote, le porte di acciaio spalancate. Per terra c’è rimasto solo un tappeto di sporcizia, e un odore dolciastro nell’aria. Qualcosa fermenta. Residui organici, acque nere e stagnanti, muffa. Il tanfo è l’unico segno umanoide in quegli androni dove la vita sembra aver smesso di abitare già da millenni.  «I detenuti sono scappati tutti durante la presa di Tripoli. Io stesso, che abito qui nel quartiere di Abu Salim,  ho aperto le porte delle celle e li ho fatti fuggire negli ultimi giorni di guerra». Guardo quei cubicoli strettissimi, coi materassi sudici sul pavimento e qualche foto attaccata qua e là al muro. Un detenuto ha riempito le pareti della sua cella con un grande graffito a matita: in alto ha scritto a caratteri cubitali il nome della sua città, Misurata, e sotto ha disegnato un ragazzo dai tratti caricaturali, col naso grosso e le orecchie a sventola, che guarda attraverso sbarre incorniciate da dei palmizi. Le celle sono piene di vestiti appallottolati, di tende strappate. C’è anche una stampella gettata lungo i corridoi, e un rudimentale manubrio per il sollevamento pesi costruito con delle bottiglie di plastica piene di sabbia. Le bottiglie di plastica sono ovunque, allineate in tutte le celle.  «Qui l’acqua arrivava una volta alla settimana. E appena usciva qualcosa dal rubinetto, i detenuti ne facevano scorta. Riempivano più bottiglie possibile, perché poi l’acquedotto avrebbe smesso di funzionare chissà quanti altri giorni».  Continuiamo a camminare, attraversiamo l’infermeria, la sala medica. Tutto è devastato come da un ciclone, da una tromba d’aria che ha frantumato ogni linea logica.

Poi scendiamo in un sotterraneo. «Qui venivano a torturare la gente», mi dice Tarek. Dagli angoli delle stanze pendono fitte ragnatele, i mobili e gli oggetti sono tutti sottosopra. Non c’è nessuno, solo silenzio. E una luce gialla e cavernosa e armadietti di ferro schiacciati sugli angoli, pianali di legno vuoti e bianchi chiusi fra sottili spalliere grigie. C’è una bava di dolore che avvolge le cose. L’aria è stantia, l’odore è denso di una umidità indecifrabile. Sul corridoio non si vede niente, è tutto buio. Ci sono delle porte chiuse e da dietro ho come l’impressione che qualcuno mi guardi. Andiamo via, risaliamo le scale.  «Dov’è la persona morta?», chiedo a Tarek. Ho paura che mi ci porti davanti da un momento all’altro. Che me la presenti lì, all’improvviso, entrando distrattamente in una stanza, senza avvisarmi. Invece sbuchiamo in un piazzale. Su un  muro, in arabo, c’è una scritta tratteggiata da un ribelle con una bomboletta spray.  «Con l’aiuto di Allah laveremo il nostro sangue versato e vendicheremo i nostri morti». Ancora, ci aggiriamo fra quegli edifici vuoti, ci affacciamo su un cortile e c’è un gruppo di ragazzi che scavano il terreno e sradicano dei tubi di ferro dell’acquedotto per rivenderli altrove. Li strappano via legandoli ad un muletto meccanico guidato da uno di loro. Sono sorpresi nel vederci comparire. Vorrei fotografarli, ma mi fanno dei gesti col pugno chiuso, per minacciarmi, e intanto continuano a tirare via pezzi di tubature d’acciaio. Noi risaliamo in macchina e torniamo verso l’uscita del carcere, costeggiamo le mura verdi e scheggiate dalle granate, ripassiamo davanti a quel palazzo arso dal fuoco della Nato e schiantato, imploso su se stesso. Sul cortile, all’ingresso, il gruppetto di adulti e ragazzi non c’è più, sono andati via tutti. Ma ora, parcheggiato proprio sotto la gigantografia di Gheddafi, c’è un pick-up. Un uomo, in piedi sul vano di carico, con un pennello a rullo sta passando una mano di vernice sul volto dell’ex dittatore. Lo sta cancellando via. Già non si vedono più i suoi occhi severi, affossati fra i tratti spigolosi del volto. Sono coperti da uno strato di colore bianco. «Vuoi vedere il morto?», mi dice Tarek, mentre osservo l’uomo in piedi sul pick-up che continua il suo lavoro iconoclastico.

Facciamo qualche metro e usciamo dal cortile. Ora siamo fuori del carcere, sulla piattaforma di cemento che delimita l’ingresso. Scendiamo qualche gradino e intorno, al di là di una fila d’alberi, c’è un blocco di case immerse anch’esse nel silenzio. Sembrano abbandonate. Tre ragazzini che bighellonano per strada parlano in arabo con Tarek, hanno più o meno quattordici anni. Gesticolano, poi si girano e mi indicano, poco più in là, una coperta di lana appallottolata per terra, proprio a ridosso di un muro di cinta della prigione, a sinistra dell’entrata. «Dicono che avvolto lì – mi traduce Saladin – c’è un uomo ucciso dai bombardamenti della Nato». Risaliamo sulla piattaforma d’ingresso del carcere, ci avviciniamo al fagotto e tutti ci tappiamo il naso con la mano per una specie di riflesso condizionato. Forse, più che per non sentire la puzza della putrefazione, il gesto obbedisce al bisogno di creare una difesa, un argine, una membrana divisoria fra me, fra noi, e la morte che stiamo per incontrare. Con un bastone uno dei tre ragazzi discosta un lembo della coperta di lana verde e svela un grosso pezzo di carne marroncino, bruciato. È una carcassa di corpo dilaniato da un’esplosione. È un pezzo di busto umano, lo si riconosce solo dalla rotondità dell’omero fasciato da un brandello di pelle  che copre parte della spalla e mezzo braccio. La pelle ha ancora un colore rosato, ma è ustionata, indurita, quel brandello di pelle è scuro e crostoso come la pelle di un pollo arrostito. È una associazione di idea oscena ma il deragliamento è irrefrenabile di fronte alla visone materica della carne squarciata  e ai volti e agli spazi onirici intorno. Al di là dell’epidermide ustionata, la carne di quell’uomo, i suoi muscoli, i tessuti, sono ridotti a una poltiglia di ossicini frantumati che spuntano da un magma marrone e i vermi, impazziti di gioia, si rotolano sul fondo della coperta verde.  «Nato… Nato», mi dicono i tre ragazzini intorno al fagotto, con una mano si tappano le narici, e con l’altra fendono l’aria e fanno il gesto di chi si taglia il collo e muore. Vogliono farmi paura, hanno schifo anche loro. «Nato bomb, Nato bomb». Poi richiudono la coperta con il bastone, continuano a sibilare «Nato, Nato», ma io ho già voltato loro le spalle. Mi allontano e mi tolgo la mano da sopra il naso, torno a respirare poco alla volta, saggio l’aria a piccoli sorsi perché ho paura che il tanfo sia ancora lì intorno a me pronto a penetrarmi dentro. Salgo in macchina dove Saladin mi aspetta. Passiamo per le strade del quartiere di Abu Salim. Le saracinesche sono tutte abbassate, c’è solo un gruppo di vecchi a prendere l’ombra sotto il ramo di un albero.  Mi chiedo a chi fosse appartenuta quella spalla, quel brandello di carne. Di chi era, che cosa faceva quell’uomo. Dove stava qualche minuto prima di morire, prima di essere ridotto in mille brandelli da un’onda di fuoco, quanta paura aveva, quanta paura si ha quando ci si sente braccati e soli davanti alla violenza dalla morte. Urla invisibili e bianche dietro di me squarciano la luce del cielo di Abu Salim.